Creare un videogioco non è affatto semplice, basti pensare a quanto sia complesso realizzare una porta! Tra le tante sfide che un game designer (e tutto il team di sviluppo di un videogioco) deve affrontare vi è proprio la dissonanza ludonarrativa, un problema tipico che si riscontra entrando a fondo nel campo di studi del Game Design.
Game Design: che cos’è la dissonanza ludonarrativa?
Il primo a utilizzare questo termine ormai ampiamente diffuso (e dibattuto) è stato Clint Hocking, un regista e designer di videogiochi canadese che ha lavorato principalmente presso le divisioni canadesi di Ubisoft e che ha, per la prima volta, aperto i riflettori sulla possibile discrepanza tra gameplay e narrazione proprio nel suo blog, nel lontano 2007.
Secondo Hocking, lo stesso BioShock, primo capitolo dell’omonima e fortunata serie, sviluppato dalla 2K Boston (dal 2010 Irrational Games) e pubblicato dalla 2K Games, è viziato da una vera e propria dissonanza ludonarrativa: “Bioshock sembra soffrire di una potente dissonanza tra ciò che è come gioco e ciò che è come storia. Mettendo in opposizione gli elementi narrativi e ludici dell’opera, il gioco sembra prendere in giro apertamente il giocatore per aver creduto alla finzione del gioco. L’idea di far leva sulla struttura narrativa del gioco contro la sua struttura ludica non fa altro che distruggere la capacità del giocatore di sentirsi connesso a entrambe, costringendolo ad abbandonare il gioco per protesta (cosa che ho quasi fatto) o semplicemente ad accettare che il gioco non può essere apprezzato sia come gioco che come storia, e quindi a finirlo per il semplice gusto di finirlo“.
Secondo lo stesso, pertanto, siamo di fronte a un vero e proprio scollamento; una frattura tra le meccaniche di gioco (e quindi il gameplay) rispetto alla narrazione che, inevitabilmente, porta in contraddizione il messaggio che il gioco si era prefissato di veicolare al giocatore e le azioni che quest’ultimo poteva effettivamente compiere. Ebbene, è estremamente facile imbattersi in molteplici esempi nei quali la narrazione videoludica si discosta totalmente da quello che poi è il gameplay. In un momento in cui si punta tutto sullo storytelling e i videogiochi sembrano esserne il futuro (come ribadito nientemeno che da Gordon-Levitt in un recente intervento), questo può essere un vero ostacolo da superare.
Altri esempi concreti ne abbiamo?
Ogni GDR che si rispetti è destinato ad andare incontro inevitabilmente ad almeno un episodio di dissonanza ludonarrativa! Prendiamo l’iconico e intramontabile The Elder Scrolls V: Skyrim di Bethesda: noi siamo un “Sangue di Drago” e il nostro è un ruolo decisivo per fermare il temibile Drago Alduin, . Il nostro obiettivo, quindi, pare piuttosto semplice. Eppure, nonostante la quest principale sia quella più urgente e vitale, il giocatore viene costantemente rimbalzato tra una quest secondaria e un’altra, barcamenandosi tra il dover ritrovare libri perduti, ripulire cantine dagli Skeever o racimolare i soldi necessari per comprare, costruire o arredare le nostre dimore; attività decisamente collaterali (ma che amiamo lo stesso!) che però mal si conciliano con l’urgenza narrativa di procedere con la storia principale.
Quanto “pesa” l’equipaggiamento ai fini della narrazione?
Un altro elemento che può farci “storcere il naso” e che può annoverarsi nell’elenco delle dissonanze ludonarrative più comuni nei videogiochi è senza ombra di dubbio l’equipaggiamento (e l’inventario).
Quintali di armi, attrezzature, pozioni, libri necessari ai fini della narrazione… eppure ci muoviamo e combattiamo agilmente per la maggior parte del tempo (sì, c’è un limite a tutto!). Su questo aspetto è senza dubbio apprezzabile lo sforzo degli sviluppatori di The Last of Us Parte II nella gestione dell’inventario: tutto ciò che Ellie può portare con se è ciò che effettivamente le vediamo addosso, che siano armi, componenti, corde, lacci, ogni oggetto trova la propria collocazione realistica all’interno del suo zaino o meno.
Tentativi di armonizzazione nel Game Design
Un altro celebre esempio di dissonanza ludonarrativa è presente nel reboot di Tomb Raider del 2013, dove una giovanissima Lara Croft, nel tentativo di riunirsi ai suoi compagni di spedizione dopo il naufragio su una misteriosa isola ai margini del Giappone, compie il suo primo omicidio per difendersi e liberarsi dalle grinfie di un selvaggio.
Ebbene, nonostante questo tragico evento lasci narrativamente la giovane Lara decisamente traumatizzata, dopo solo qualche minuto di gioco, una volta sbloccate le armi da fuoco, ecco che la stessa si trasforma nella nostra iconica eroina, capace di sbaragliare da sola decine e decine di nemici (ora si che ti riconosciamo, Lara!). Stessa sorte tocca al nostro amato Nathan Drake, protagonista di Uncharted, un personaggio che nelle varie scene di intermezzo ci viene presentato come un uomo pacato, gradevole e piacevole ma per esigenze di gameplay diventa uno spietato killer, lasciando dietro di sé morte e distruzione.
In questo clima, in cui è davvero facile cadere nella trappola della dissonanza ludonarrativa, ecco che nasce il progetto di The Last of Us, firmato da Naughty Dog con l’ambizioso obiettivo di armonizzare gameplay e narrazione. L’ambientazione post apocalittica e decadente non lascia certamente spazio all’immaginazione: ogni azione, anche la più spietata, trova una giustificazione nella continua lotta per la sopravvivenza in cui i personaggi, come lo stesso Joel, sono costretti a cedere ad azioni immorali, in quel mondo decisamente ostile. Sebbene non manchi qualche imperfezione per andare incontro ad alcune meccaniche di gioco (ne è un esempio “l’invisibilità” e “l’immortalità” di Ellie che dovrà essere scortata dal protagonista fino all’ospedale di Salt Lake City) che rendono certamente il tutto meno realistico ai fini del gameplay, il titolo di Naughty Dog finisce per essere uno dei migliori casi di . Non a caso, nel secondo capitolo della serie, viene calcata ulteriormente la mano per aggiungere ulteriori livelli di realismo. Basti pensare alla gestione dei potenziamenti di Ellie, che vengono sbloccati solo dopo aver trovato i corrispondenti manuali per scoprire tutte le tecniche di sopravvivenza, altrimenti impossibili da apprendere in un contesto realistico.
Si può sognare?
Innumerevoli sono, dunque, le difficoltà nel Game Design come confermato in un’intervista alla stessa Rhianna Pratchett, scrittrice di Tomb Raider e Rise of the Tomb Raider. Per Pratchett infatti, ammettendo in prima persona la forte dissonanza ludonarrativa nel primo reboot della serie, dove la giovane Lara a seguito della sua prima uccisione fa strage di nemici in barba a tutti i tentativi di umanizzazione del personaggio, “si tratta di bilanciare le esigenze del gameplay con quelle della narrazione. Le esigenze della narrazione non sempre prevalgono su quelle del gameplay“. Nonostante confermi che sarebbe certamente stato più calzante un “rump-up” più lento, “quando i giocatori ottengono una pistola, in genere vogliono usarla. Siamo stati coraggiosi a far stare i giocatori senza una pistola così a lungo in un gioco in cui si finisce per sparare molto. Abbiamo cercato di innovare un po’, ma la narrativa non può sempre vincere…a volte il combattimento, o il gameplay o qualsiasi altra cosa, deve vincere“.
Non sempre è possibile rendere un gioco privo di dissonanze ludonarrative e anche i le opere con più cura nei dettagli devono concedersi qualche “licenza” per dare modo ai giocatori di divertirsi senza pensare troppo alla poca verosimiglianza con il mondo reale (e narrativo), soprattutto se è grazie a una dissonanza che possiamo compiere azioni che altrimenti non avrebbero avuto senso. Certamente sono apprezzabili gli sforzi compiuti dalle case produttrici per limitare al minimo questo scollamento tra gameplay e narrazione, ma è assolutamente accettabile mantenere quel pizzico di magia che rende possibile che l’ordinario si trasformi in straordinario.